Sinossi
Cupo, Mago, Skizzo.
Tre figure in agguato nell'oscurità, tre predatori in mezzo agli alberi, un unico obiettivo: svuotare la cassaforte di Villa Marchetti, residenza di facoltosi gioiellieri romani.
Il piano: sorprendere la coppia di ritorno dal lavoro, entrare in casa, arraffare il possibile e filare verso una nuova vita, lontano dalla periferia degradata della città.
Un gioco da ragazzi, come armare il cane di una pistola dalla matricola abrasa. Cupo, Mago e Skizzo questo credevano.
Finché non hanno aperto la porta sbagliata.
Dati
Titolo: La casa dalle radici insanguinate
Genere: thriller-horror
Pagine: 230
Editore: Dark Zone
Bio
Romano, classe '80, Roberto Ciardiello sguazza nell'horror fin da piccolo, cinematografico e letterario. Ha iniziato leggendo i fumetti di Dylan Dog, ha proseguito con il ciclo Notte Horror degli anni Novanta trasmesso in tv, ha approfondito la questione ed è poi approdato alla narrativa. Nonostante il suo amore per Stephen King, i suoi autori preferiti scrivono noir: James Ellroy, Edward Bunker, Don Winslow e Jo Nesbo, per citarne alcuni.
In passato ha pubblicato racconti per Edizioni XII, Sogno Edizioni, Delos e WePub. Ha partecipato a concorsi letterari nazionali, vincendone alcuni e piazzandosi sul podio in altri. Nel 2018 pubblica con Dark Zone Edizioni il romanzo breve La vendetta nel vento (ex autoprodotto) e a novembre 2019, con la stessa casa editrice, La casa dalle radici insanguinate (anch'essa un'ex autoproduzione).
Estratto
Gennaio, estrema periferia romana, notte fonda senza sogni.
Con la testa incassata tra le spalle e le braccia incrociate sul petto a difendersi dal freddo, osserva il muro davanti a sé. Anzi, quello che c’è sopra. È la prima volta che si cimenta con spray e mattoni, lui che fino a quel momento i graffiti li ha provati solo in scala ridotta, la matita in una mano e tanta fantasia da riversare sui fogli.
Ha scelto il muro in fondo al Dieci Buchi, quello che fa da tappo alla stradina senza uscita in origine chiamata Vicolo degli Astri, un muro grigio che ora grigio non è più. Che ha bevuto il sangue dei fratelli D’Amato dalla pozza ai loro piedi, muto testimone di una delle tante facce disgraziate della miseria.
È successo l’anno scorso, in primavera, lo ricorda perché il bar sotto casa aveva già messo in mostra l’enorme uovo di Pasqua per la riffa. Era scoccata la mezzanotte, si dice, e Giovanni D’Amato aveva le tasche piene dell’oro del portagioie di sua madre. Oro da barattare con un rotolo di banconote. Perché la scimmia sulla schiena amava essere ingioiellata.
Giovanni D’Amato tremava d’astinenza. E di paura. Perché suo fratello Paolo era lì davanti. Perché glielo aveva detto, che se avesse ripreso a bucarsi l’avrebbe fatto lui una volta per tutte. L’avrebbe bucato.
Paolo D’Amato parlava poco. E mai a vanvera. Era uscito di galera da due settimane: tentato omicidio.
Così, uno tremava e l’altro camminava. Uno era spalle al muro in fondo al vicolo cieco e l’altro a quel muro si avvicinava.
Chi avesse detto a suo fratello dove trovarlo e a che ora, Giovanni non l’avrebbe mai saputo.
Perché Paolo D’Amato parlava poco. E mai coi morti.
Nove bocche di sangue si aprirono sul corpo di Giovanni D’Amato, nove iniezioni di un grosso ago a serramanico. Cadde a terra scomposto in un’overdose d’amore fraterno. Proprio mentre il blu intermittente di una gazzella in ricognizione si infilava nella stradina.
Beccato. Braccato.
E fissando quell’animale scattare andandogli incontro quasi volesse incornarlo al muro, Paolo D’Amato decise di bucarsi anche lui. Un’unica, mortale dose sparata dritta nel collo. Talmente potente che del serramanico penetrò anche un pezzo di impugnatura.
Così si dice.
A distanza di un anno, se si guarda bene durante i giorni estivi più luminosi, quando il sole picchia in mezzo al cielo e la mattina cede il passo al primo pomeriggio, si può cogliere ancora qualche residuo di sangue sull’asfalto. Macchioline di un colore diverso, nient’altro. Macchioline essiccate di vita che fu.
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